Taiwan: crisi a parte pare che la nuova tendenza tra i giovani sia quella di utilizzare comuni sacchetti di plastica – il cui uso dovrebbe essere circoscritto al contenere rifiuti – al posto di abiti più o meno griffati. La ricerca di sensazionalismo, unicità, trasgressione pare dunque sia giunta al capolinea, o abbia ad ogni modo esaurito le proprie scorte di creatività e ricercatezza.
Mi sembrerebbe un’ovvietà discutere con voi di scelte sposate a un cattivo gusto. Credo la genesi di questo fenomeno, come di altri impulsi che giungono alla moda partendo dalla strada, sia da ricercare nell’epoca in cui viviamo.
Proseguendo con la lettura del mio motto “siamo ciò che vestiamo” è figurabile un parallelismo tra il rifiuto di un’identità generazionale e l’abito che dovrebbe rappresentarne stile e modus vivendi. Dal movimento Punk che esprimeva un rifiuto per certi aspetti del vivere comune, si è giunti ad un appiattimento del Sé diffuso tra le giovani generazioni in quasi tutto il mondo.
Probabilmente a questo punto la scelta dei giovani di trasformarsi in spazzatura vivente riflette un ultimo moto di protesta, generato dalla consapevolezza della perdita di una certa autonomia nelle scelte della propria esistenza che in modo naturale si riflette sulla selezione di uno stile vestimentario.
Più pericoloso di questo fenomeno – che sono convinto non giungerà mai a divenire una vera Moda – l’altro che invece seduce la gran parte dei giovani occidentali, ossia la scelta di indossare abiti e accessori che come fossero una divisa, annullano l’identità dei singoli in favore di una grigia vastità di soggetti che si esibiscono in tuta, shorts logori, borse con logo. Questa scelta assume in qualche modo la funzione di rivestire il corpo nascondendone l’identità, unificando un gruppo in una sorta di tacito e rassegnato esercito che non sa o non vuole combattere.
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